Text wrote by Luigi Cerutti for leaflet in occasion of Marco Porta solo show "Abito il sogno che mi abita". Palazzo Natta-Vitta, Casale Monferrato, Italy.

Come un orto.
di Luigi Cerutti

 

Tutte le opere che compongono questa mostra personale hanno qualcosa in comune e qualcosa che le mette in relazione. Non è importante individuare, a questo proposito, un elemento fisico, come la mosca oppure l’albero, il gambo di rosa. Seppure questi siano argomenti molto vicini all’universo visuale dell’artista rimangono, nella loro indubbia forza, dei requisiti. Quando si prende in considerazione un’opera – più semplicemente un gesto – è opportuno dare il giusto peso alle sue componenti: da una parte le scelte formali, il materiale e tutto l’ambito raffigurato o richiamato dalla struttura, dall’altra l’aspetto sostanziale, potremmo dire «quello che l’opera cerca di dire». La mostra ha così una serie d’istanze piuttosto identificabili, organizzate come un orto, che è un modesto misto di artificialità e di naturalità. Nella piccola manica di tre ambienti al pian terreno si possono trovare altrettante opere che parlano attraverso l’acqua. Qui l’elemento archetipico per eccellenza nell’organicità della scelta che lo vede impiegato con costanza, ha riferimenti leggermente scostati. Nell’opera "Io fui solo e respirai" l’umore scorre nel solco della pianta: è un momento di gioia, che ha a che fare con la vita. Quando mi sono trovato di fronte questo lavoro, la prima volta ormai qualche anno fa, ho subito pensato che fosse un gentile invito: non tanto e non solo per la vista della pianta che nella mimesi perfetta del bronzo a guisa di legno è ambigua e dolcissima, ma soprattutto per via del flebile e impercettibile suono, gorgoglio. Qui l’opera sta nell’essere disponibili a questa attenzione, ad accorare il proprio cuore a questa minuscola sostanza che non è puro movimento ma anche vibrazione. La seconda opera è "Rumori suonano parole", un ramo che indica il centro di una pozza d’acqua. Qui l’elemento da infinito come nell’albero – era un ricircolo senza soluzione di continuità – diviene, di colpo, finitissimo. La lancia che scende dal soffitto indica il mezzo, un epicentro un po’ farlocco, o per lo meno arbitrario. Giacché non esiste modo di definirlo nocciolo ma solo nucleo momentaneo. Quel segno messo lì da Marco Porta è un modo di evidenziare qualcosa che sta nei suoi occhi e non sempre nei nostri; se la prima opera era un invito, questa è una richiesta. Una vera e propria domanda esplicita che sta ad ognuno di noi rispondere. Il terzo lavoro, "L’acqua per il re", è un ruscello di quattro segmenti. Il tema geometrico, anticipato nel lago circolare, qui emerge palese. La geometrizzazione della natura, l’idea che un fiumiciattolo possa comporsi di quattro lati identici, o che un pugno di mosche si sistemi in un cerchio ("Mani immobili sfiorano"), come i piccioni perfettamente in fila su un cornicione o un filo elettrico, è tutta nostra. Loro infatti sono componenti del mondo che fanno un corso indipendente e che talvolta possono assumere rilevanza anche nelle nostre questioni. La geometria, l’ordine di un dittero che vola, è una risultante che ha impatto su di noi in misura di quanto noi stessi siamo in grado e siamo disposti - o obbligati - ad appercepirla.

Questa tematica è la stessa che governa l’opera "Dare nomi alle cose", al piano nobile del palazzo. Un rumore di capre che belano e che si muovono vi conduce all'opera e vi pone di fronte ad un tappeto di letame. Il suono assolve ad un compito evocativo e, al contempo, rinforza l'idea di quello che è li davanti. Gli escrementi di capra, dall’aspetto di reticolati molecolari, stanno uniti in un ordine che addirittura apre all’opera una via narrativa: quel rettangolo è infatti troppo incredibile per essere vero, e molti potranno sospettare l’intervento umano. È il gesto di un demiurgo che ora pone l’accento volontariamente sul caso della formazione di quella figura: tanto quanto è improbabile che un assembramento di capre abbia defecato in quest’ordine è altrettanto necessario considerare che possano averlo fatto, e che quella precisa disposizione sia parte della nostra esistenza e possa costituire un segno rivelatore.

Questa casualità artificiosa è la stessa che regola l’opera "Il raggrumarsi dell'ombra". Qui un braccio di gambi di rosa è in relazione spaziale e psichica con un solido di rose fresche, "vere". Se da una parte non avrebbe senso disquisire sulla verità che sta nell’uno e nell’altro oggetto, risulta evidente come questo lavoro possa essere una sorta di perno flessuoso dell’intero percorso. Sono infatti messi in rapporto fisico il bronzo e la clorofilla, il segno dell’artista e l’elemento naturale: e le contraddizioni feroci che scaturiscono stridono tanto quanto è il nitore e la leggerezza poetica di questo paragone.

La mostra, infine, presenta un'installazione sonora – "Abito il sogno che mi abita". Questa ha il senso di attrarre il fruitore in alcuni spazi; è un richiamo naturale, che è anche correlativo paesistico, elemento empatico. Quando il medico decideva di interrompere la seduta d’ipnosi solitamente pronunciava o emetteva un segnale che l’ipnotizzato percepiva come comando di uscita. Una sorta di pulsante antipanico e di exit ante litteram. Queste mucche possono essere assimilate così: sono un richiamo, una sveglia lontana che vi deve aiutare ad ascoltare tutta la mostra. E lo faranno.